fonte Raimondo Bultrini – La Repubblica
DHARAMSALA – Con la testa piegata e le mani giunte, cinquecento delegati tibetani giunti a Dharamsala da tutto il mondo hanno offerto al Dalai lama la tradizionale kata, la sciarpa bianca che nel Paese delle Nevi suggella ogni addio. Da secoli simboleggia il rispetto e l´amicizia offerti con mente pura. Ma questa volta, nella cittadina indiana dove per cinque giorni la comunità in esilio ha discusso del futuro del Tibet, la formalità del gesto ha racchiuso significati politici che non mancheranno di essere letti a Pechino come una nuova fase nell´ormai decennale e disperata battaglia degli esuli per rivendicare la propria terra.
Era stato lo stesso Dalai Lama a convocarli, con una mossa strategica a sorpresa, per riunire da una parte i suoi fedelissimi e i suoi critici (operazione in gran parte riuscita), e dall´altra far giungere un messaggio inedito ai dirigenti comunisti di Pechino: state attenti, perché la questione Tibet può diventare parte di un progetto più vasto per portare la democrazia in Cina.
Parlando ai delegati dopo averli fatti discutere liberamente anche dell´argomento finora tabù dell´indipendenza (Rangzen), il Dalai lama ha infatti rivelato di essere stato avvicinato da numerosi studiosi e dissidenti cinesi che gli hanno offerto di diventare una sorta di «leader della Cina democratica». «Io gli ho risposto che non posso essere la guida che cercano – ha detto – ma posso sicuramente far parte del loro movimento contro la dittatura, così come in passato ho condiviso le aspirazioni dei giovani di Tien An Mien».
Da quando nel lontano 1974 offrì per la prima volta a Deng Xiaoping la sua disponibilità a trovare una pacifica «Via di Mezzo» attraverso una «genuina autonomia», il capo spirituale dei tibetani non aveva mai lanciato una sfida tanto aperta al regime. Una sfida quasi romantica, al cospetto del crescente potere economico e militare del grande impero e alle violente repressioni messe in atto dopo le ultime rivolte di Lhasa del marzo scorso. Ma al termine dello «storico» incontro degli esuli a Dharamsala, gli inviati della stampa di tutto il mondo hanno potuto assistere con un certo stupore all´abbraccio plateale tra il religioso buddista e un gruppo di rappresentanti della dissidenza cinese sbucati come d´incanto tra il pubblico.
Il messaggio andava ben oltre la minaccia della creazione di un possibile fronte comune tibeto-cinese dentro e fuori il Paese, fino ad aprire per i vertici comunisti scenari inquietanti che potrebbero includere un´alleanza con i Nazionalisti di Taiwan e gli oppositori di Hong Kong, i separatisti Uiguri nello Xinqiang e le minoranze dell´Inner Mongolia, i membri della potente sètta buddhista della Falun Gong e fasce di popolazione han rimaste ai margini del boom economico nazionale.
Per ora si è trattato di semplici accenni lanciati dal Dalai lama ai 500 delegati durante la cerimonia di saluto alla quale con sapiente regia sono stati ammessi gli inviati della stampa internazionale. Formalmente, infatti, i portavoce del Parlamento in esilio hanno semplicemente riferito che l´assemblea ha votato a maggioranza l´adesione alla Via di Mezzo autonomista portata avanti finora dal loro leader «per il tempo necessario a vedere se esiste qualche cambiamento nella politica cinese». Un tempo che il Dalai lama non ha voluto fissare («Spetta ai tibetani, non a me, decidere» ha detto) anche se i toni usati sono quelli dell´ultimatum, scaduto il quale – hanno spiegato i rappresentanti dell´assemblea – «si opterà per la richiesta di totale indipendenza o autodeterminazione».
Di certo l´unico segnale emerso dopo i 5 giorni di acceso dibattito tra gli esuli sembra togliere alla Cina ogni spazio di «ipocrisia», come ha detto ai giornalisti il leader tibetano. Da Dharamsala infatti fino a nuovo ordine non partirà più nessuna delegazione per trattare con Pechino.