Non fermate la Rivoluzione di J. Norbu

C’è un incubo ricorrente, ben noto nella psichiatria clinica, in cui il dormiente picchia un nemico ma non riesce a procurargli alcun danno. Più furiosamente si colpisce il nemico, con pugni o calci, più egli rimane esasperatamente illeso. In tutti gli anni in cui ho lavorato a Dharamsala mi è sembrato di combattere sotto il peso di una frustrazione e di una impotenza senza rimedio, spesso anche inutilmente. Sono certo che altri tibetani in Tibet e in esilio hanno provato gli stessi sentimenti. Ma ora sembra che noi ci stiamo finalmente svegliando da questo lungo incubo e cominciamo a comprendere che ciò che facciamo ha un effetto, questo fa la differenza; che noi possiamo sferrare un colpo – un duro colpo- contro il regime comunista cinese. E che anche se il nostro scopo comune dell’indipendenza del Tibet può non realizzarsi così presto come vorremmo, noi possiamo ora intraprendere dei passi concreti, fare sacrifici se necessario, per accelerare l’agenda della sua realizzazione.
Come si può descrivere adeguatamente tutto quello che è accaduto (e sta accadendo) in Tibet? I media le hanno definite proteste, tumulti, dimostrazioni, disordini, perfino rivolte, termini forse adatti a descrivere un evento isolato ma completamente inadeguati a comprendere il significato della mega-esplosione  del 10 Marzo di quest’anno. Si tratta di una rivoluzione. Niente di meno.
Si consideri l’estensione degli eventi. Nel 1987-89, le proteste furono limitate a Lhasa  e a qualche villaggio e monastero vicini ma quest’anno si sono estese fino alle lontane regioni orientali dell’Amdo e del Kham, all’interno delle province cinesi di Gansu, Sichuan e Qinghai. I nomi di questi aree critiche: Ngaba, Bora, Labrang, Mangra, Ditsa, Yulgan, Tsekhog, Tsoe, Palung, Chentsa, Rebgong, Kyegudo, Dariang, Sershul, Machu, Chigdril, Chone, Luchu, Ngaba, Serthar, Palyul, Tehor, Drango, Barkham, Tridu, Kanze, Lithang, Nyakrong e molti altri, lanciano la sfida. Porterò nella tomba la  visione  dei cavalieri (e ciclisti) di Bora che caricano. Nel Tibet centrale abbiamo avuto proteste e scontri a sakya, Shigatse, Samye, Toelung Dechen, Ratoe, Phenpo, Gaden, Medrogongkar, e altre aree non menzionate nel Tibet occidentale. Anche a Beijing e Lanzhou, in un mare di cinesi ostili, studenti universitari tibetani hanno organizzato coraggiosamente proteste e sit-in. Ovunque i tibetani sono venuti fuori sventolando la vecchia bandiera nazionale, gridando il loro impegno al Rangzen (indipendenza) e la loro devozione al proprio leader, il Dalai Lama. Anche dopo la repressione cinese e gli arresti di massa 30 monaci tibetani hanno protestato nel Jokhang davanti ai giornalisti stranieri condotti in tour di propaganda in città. Qualche giorno dopo, quando è la volta di funzionari governativi stranieri ad essere portati in un tour propagandistico della città, un’altra grande dimostrazione ha avuto luogo a Lhasa, nell’area di Ramoche.
Inoltre ci sono state dimostrazioni, proteste, marce, e veglie da parte dei tibetani in esilio e dei loro sostenitori in quasi tutte le maggiori città del mondo. Sono state insolitamente vigorose, anche aggressive. Un tratto comune a questi eventi è stato quello di strappare la bandiera cinese dal pennone dell’ambasciata o consolato per sostituirla con quella nazionale tibetana. Ancora non ho potuto ottenere il video dello straordinario uomo-ragno tibetano che si è arrampicato con velocità e perizia sul muro dell’ambasciata cinese a Vienna e ha tirato giù l’odiata bandiera rossa. E questo ancora continua in Tibet e altrove. Molti tibetani in esilio a New York hanno abbandonato il proprio lavoro e stanno vivendo con i loro risparmi per consentire alle dimostrazioni e alle proteste di continuare. Domenica scorsa era ad un raduno organizzato dall’unico tibetano di Nashville, la capitale del Tennessee. Ero venuto giù dalla montagna in auto con la mia famiglia e gli amici e altri tibetani erano venuti – studenti, monaci e laici – guidando per molte ore dalla Georgia e dal Kentucky.
Era rimarchevole la spontaneità di tutti. È vero, noi avevamo il comune obbiettivo delle olimpiadi di Pechino, ma ovunque i tibetani, a distanza di migliaia di miglia, sembravano operare su un’unica lunghezza d’onda. Alcuni dei nostri più ammirati amici del dharma direbbero che erano all’opera le nostre naturali abilità telepatiche ma Anne Applebaum, studiosa e giornalista vincitrice del premio Pulitzer (Gulag, a History), nel suo articolo del 18 Marzo sul Washington Post, fornisce una spiegazione più prosaica: telefoni cellulari.
Per Applebaum gli eventi in Tibet rappresentano una manifestazione di una più ampia reazione delle “nazioni prigioniere”, uighuri, mongoli, tibetani, che si sollevano contro il dominio tirannico di un potere imperiale vecchio e straniero che ha oppresso a lungo i paesi e le società più piccole che lo circondano. Applebaum include in questa categoria anche nazioni indipendenti come la Corea del Nord e la Birmania, quindi, con grande esatezza, relega Kim Jong Il e la giunta militare birmana al ruolo di dittatori per procura di Beijing. Quasi a conferma della grande teoria della Applebaum, la Reuters riportava, solo pochi giorni fa, la notizia di grandi dimostrazioni avvenute nel Turkestan Orientale (Xinjiang).
Sui fatti del Tibet la Applebaum conclude che se i leader cinesi “…non sono preoccupati dovrebbero esserlo. Dopo tutto gli ultimi due secoli sono pieni di storie di imperi forti e stabili rovesciati dai loro soggetti, indeboliti dai loro stati clienti, travolti dalle aspirazioni nazionali di piccoli paesi subordinati. Perché il 21° secolo dovrebbe essere diverso? Ieri, mentre guardavo un confuso video da cellulare di gas lacrimogeni che rotolavano nelle strade di Lhasa, non potevo evitare di chiedermi quando – forse non in questa decade, in questa generazione o neanche in questo secolo – il Tibet e i suoi monaci avranno la loro vendetta.”
I tibetani, religiosi e laici, non sono un popolo vendicativo, ma non si accorderanno per niente di meno che un Tibet indipendente, ed io ho la sensazione che questo avverrà prima di quanto pensi la Applebaum. Ma Applebaum ha ragione su un punto, che questo è molto più di quanto la maggior parte della gente sia capace di comprendere. La leadership tibetana non sembra averlo compreso affatto.
In un momento così profondamente storico, le azioni del governo in esilio di Dharamsala appaiono incomprensibili ed allarmanti. Il 17 Marzo il Dalai Lama ha convocato i capi delle cinque organizzazioni che si sono unite per creare il Movimento di Insurrezione del Popolo Tibetano ed organizzare le varie dimostrazioni in India e nel mondo ed hanno anche organizzato la marcia della pace verso il Tibet. Il Dalai Lama ordina loro di fermare la loro marcia verso il Tibet. Non solo gli organizzatori sono stati costretti a fermare la loro marcia verso il Tibet da tempo pianificata, ma l’ordine di H.H. sembra aver causato la rottura della loro alleanza.
Ancora, obbedendo alle direttive del Primo Ministro Samdhong Rinpoche, il gabinetto ed il parlamento in esilio hanno creato uno speciale “Comitato di Solidarietà” per assumere la guida delle varie campagne ed attività sorte ovunque nel mondo. Sembra che membri del comitato abbiano avvicinato i leader e rappresentanti di questi movimenti ed organizzazioni per indurli a porre fine alle loro attività indipendenti per operare sotto la direzione del comitato stesso. Sembra che il comitato abbia messo in opera una sorta di strategia del “divide et impera”, interpellando separatamente le singole organizzazioni. I rappresentante di un gruppo di attivisti mi ha informato che un portavoce del comitato gli ha comunicato che la situazione in Tibet era così critica da costituire un’”emergenza nazionale”, perciò il governo in esilio aveva il diritto ed il dovere di prendere la guida di ogni attività di tutti i gruppi indipendenti i quali, d’ora in avanti, avrebbero dovuto fare solo ciò che il “Comitato di Solidarietà” avrebbe detto loro di fare. È ironico che le autorità comuniste cinesi stiano usando i medesimi argomenti cinici e stantii della “sicurezza nazionale” per giustificare la loro brutale repressione dei manifestanti tibetani in Tibet. Il governo tibetano dovrebbe comprendere che così sta violando i diritti dei singoli tibetani – in particolare i diritti di assemblea e protesta pacifica. Non può imporre brutalmente la sua volontà ma esso sta usando la coercizione e anche (oso dire) il ricatto emotivo e “spirituale”, sfruttando la devozione della gente verso il Dalai Lama.
Anche il Primo Ministro Samdhong Rimpoche ha partecipato alla politica del “divide et impera” con un discorso tenuto attorno al 20 Marzo. Ne ho ascoltato un estratto su Radio Free Asia martedì 25. Si è profuso in copiosi elogi degli sforzi dei dimostranti in Tibet ma, stranamente, ha cominciato a criticare i manifestanti e gli attivisti in India e in occidente. Si è chiesto, in modo sarcastico, se quelle persone pensavano di poter fare di più di quanto il Dalai Lama aveva fatto, dirigendo le sue critiche in modo particolare al Tibetan Youth Congress. Sebbene non abbia mai nominato l’organizzazione, ha menzionato un’occasione in cui the T.Y.C. aveva organizzato una grande dimostrazione a Delhi contro i cinesi, circa un anno fa, in coincidenza con la presenza del Dalai Lama in città. Rimpoche ha chiesto irritato perché gli organizzatori abbiano scelto proprio il giorno in cui il Dalai Lama si trovava a Delhi. Avevano intenzione di sabotare ciò che il Dalai Lama stava facendo?
Da Dharamsala sono state inviate circolari ale Organizzazioni non Governative (NGO) e gruppi di sostegno per indurli a smettere di usare l’espressione “Free Tibet”. In precedenza solo il termine indipendenza o Rangzen era considerato tabù ma ora anche un termine così generico ed inoffensivo come “Freedom” (Libertà) è visto come troppo provocatorio. Sono state diramate istruzioni al pubblico tibetano di non strappare, bruciare o calpestare la bandiera comunista cinese. Una settiman fa Tenzin Choeden, membro del Comitato di Solidarietà, ha parlato davanti alla missione cinese presso le Nazioni Unite a New York dove i tibetani stavano portando avanti una vigorosa manifestazione dal 10 Marzo. Il rappresentante del Comitato di Solidarietà ha tenuto un lungo e tortuoso discorso dove ha chiesto ai tibetani di non gridare slogan che chiedano l’indipendenza per il Tibet o il boicottaggio delle olimpiadi di Pechino. Con grande fastidio della folla, ha anche chiesto ai contestatori di non dispiegare la grande bandiera con la scritta “China out of Tibet”che stavano portando.
Il 31 Marzo I tibetani da Washington DC, New York, Boston, Charlottesville and Philadelphia si sono riuniti nella capitale Americana per un raduno. Membri dello staff  di International Campaign for Tibet, ICT (probabilmente su istruzioni del Comitato di Solidarietà) hanno cercato di rimuovere una grande bandiera che proclamava “Indipendence for Tibet” che era stata appesa sul palco ed altre bandiere e cartelloni con le scritte “Boycott Beijing Olympics” e “Boycott Genocide Olympic”. Una sgradevole discussione è sorta tra i dimostranti e lo staff ICT che sosteneva che, dal momento che il capo dell’ICT, Lodi Gyari, avrebbe parlato al raduno, sarebbe stato imbarazzante per lui avere intorno quelle bandiere anti-cinesi.
La leadership tibetana sta giocando con il fuoco. Se davvero riesce a raccogliere attorno a sé tutti i tibetani, completamente demoralizzati e senza speranza, può ottenere il suo scopo di “fermare la crisi” ma questa sarebbe la fine del governo in esilio. Non credo che nessuno lo ascolterebbe più. D’altra parte gli attivisti tibetani ed i dimostranti potrebbero sentirsi offesi e picchiare un rappresentante del Comitato o anche essere provocati abbastanza da protestare davanti al Office of Tibet di New York o al ICT di Washington DC. Sarebbe tremendamente imbarazzante per il governo in esilio e per il Dalai Lama. Sarebbe una disfatta non solo per il governo ma anche per la causa dell’indipendenza tibetana. È vitale che noi abbiamo un governo efficiente e che possiamo rispettare e finora sembra che la nostra leadership sia incapace di entrambe le cose.
Non penso che il governo in esilio stia tentando una specie di gioco di potere, come un osservatore mi ha suggerito, è più probabile che Dharamsala voglia prendere in mano il movimento per mitigarlo, limitandolo a fiaccolate, petizioni, bande nere sul braccio e così via, azioni che si spera che Pechino non consideri provocatorie e che potrebbero stancare e annoiare tutti i dimostranti e gli attivisti inducendoli a tornarsene a casa. Mi sembra evidente: Dharamsala vuole solo fermare la cosa. Controllate il sito web del Comitato di Solidarietà: Stop TibetCrisis.net. Penso che nessuno potrebbe essere più chiaro. E che si tratta proprio di ciò che Pechino, nella sua maniera più brutale, sta tentando di fare: fermare la crisi tibetana.
Certo la speranza di Dharamsala è che se la crisi si ferma si possa tornare a cercare di negoziare con Pechino. Nonostante tutto quello che è accaduto in Tibet i nostri leader non riescono assolutamente a vedere che questo non avverrà mai. È troppo tardi per chiunque, anche per Pechino, per fermare la rivoluzione. Samdhong Rimpoche e il suo Comitato di Solidarietà non possono fermarla più di quanto possano fermare uno tsunami parandoglisi davanti. Ai miei leader nel governo in esilio ( che sarà sempre per me il vero governo del Tibet) dico questo con il dovuto rispetto ma anche con sincera preoccupazione: toglietevi di mezzo.

5/4/2008
Jamyang Norbu*

traduzione a cura di Valerio D.
redazione Dossier Tibet

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